Una Pentecoste del XVIII secolo ad Acquaviva

UNA PENTECOSTE DEL XVIII SECOLO AD ACQUAVIVA
Il ritorno della grande tela della Pentecoste alla parrocchiale di S. Vittorino e della SS. Concezione in Acquaviva, coinciso col 190° anniversario della consacrazione della chiesa neoclassica, segna un’altra tappa nel percorso di riqualificazione della maggior frazione del territorio comunale come tappa interessante per il turismo culturale.
L’opera, originariamente approdata alla chiesa di S. Ilario ad Argiano, è un notevolissimo documento della pittura del primo Settecento nel nostro territorio, di autore non ancora identificato. È stata ricollocata sulla parete destra del presbiterio, dirimpetto alla bellissima Annunciazione attribuita a Bartolomeo Barbiani, con forte valore simbolico: la Pentecoste chiuse la parabola terrena di Maria nel cerchio perfetto di un’esistenza guidata dallo Spirito Santo, dall’Incarnazione alla discesa della Sapienza divina, vissuta insieme con gli Apostoli, prima dell’inizio della vicenda celeste della madre di Dio, avvenuto con l’Assunzione, infatti, deve essere considerata l’inizio della vicenda celeste della madre di Dio.
Chiunque l’abbia dipinta – sia esso un fiorentino come l’Antonio Puglieschi di cui Montepulciano già possiede un’importante tela, oppure forse un pittore d’area romana come Agostino Masucci o Francesco Trevisani, dei quali l’enfasi luministica e certe sfumature mi ricordano la produzione – se ne resta affascinati. Lo sfolgorante blu lapislazzulo del manto della Vergine, la tempesta di luce dorata che investe dall’alto i personaggi sono i due elementi di più immediato impatto visivo; ma poi si è attratti dallo sguardo che Maria leva in alto senza affanno, mentre tutti appaiono turbati, impauriti, stupiti o non ancora in grado di comprendere quanto sta accadendo.
L’iconografia e la composizione scelti sono abbastanza consueti, con la Vergine al centro del gruppo, ma l’aderenza della scena al racconto degli Atti degli Apostoli è impressionante. Dal testo (1, 12-14) sappiamo che insieme ai Dodici, che si riunivano abitualmente nella sala di preghiera al primo piano di una casa non meglio precisata, erano anche “alcune donne” e Maria. Di quel passo l’artista, comprensibilmente, omise soltanto di rappresentare i fratelli di Gesù, citati al versetto 14. Su questo gruppo, riunito nello stesso luogo, “mentre stava compiendosi il giorno della Pentecoste”, s’abbatté il fragore del cielo, un vento impetuoso che riempì lo spazio (2, 1-4).
Il passo è d’estrema potenza poetica e il pittore traduce quel fragore e quel vento in un turbine d’oro che, mentre apre lo sguardo alla profondità dei cieli e ad apparizioni angeliche, ne rende a tratti incerta la forza di penetrazione. Le fiammelle rosseggianti della Sapienza divina piovono da un’atmosfera intrisa di luce abbagliante, divina e rivelatrice, manifestazione incorporea ma visibile della chiarità in cui ogni cosa risplende e annega la propria materia per ritrovarsi opera divina, frutto conosciuto, conoscibile, buono perché libero dall’ombra e dall’errore. La madre di Gesù, colei che è piena di grazia, s’abbandona senza esitazione, riconosce in quei segni l’azione di Dio che già ha conosciuto in sé dal giorno dell’Incarnazione. Dietro di lei si scorgono i visi di altre due donne, maturi ma freschi: una scruta dubbiosa; l’altra sembra intimidita.
Attorno alla Vergine si assiepano gli Apostoli. Cercano nella sposa celeste un conforto al loro turbamento, chiaramente espresso dai loro gesti e sguardi. Ne possiamo identificare quattro, grazie ai piccoli espedienti di un pittore che si rivela d’ottimo mestiere e di discreta cultura storico-artistica, oltre che – in questo caso – guidato puntigliosamente all’opera da un esperto di dottrina del tempo. A sinistra è Giovanni, come di consueto raffigurato giovane e di gentile aspetto: il taglio sfumato e l’espressione del suo volto richiamano alla lontana certi visi leonardeschi. Pietro, il vicario di Cristo, i cui simboli del potere – le chiavi – giacciono a terra davanti a lui, è prosternato davanti a Maria: più di tutti e certamente per primo, come compete a una guida illuminata e umile, è lui a rivolgersi a colei che conosce il potere dello Spirito Santo e i disegni insondabili del Creatore, ne dichiara il ruolo di guida e tramite esperta. La figura sprigiona una poderosa forza nello scorcio a profilo perduto che esalta i grassi panneggi del manto. Alla destra di Pietro è individuabile Andrea, grazie alla postura degli avambracci incrociati sullo sterno, a disegnare il simbolo del suo martirio. Tommaso è, infine, il personaggio eretto di fronte alla Vergine col mantello rosso su una veste blu: mentre tutti gli altri personaggi hanno le mani giunte o accostate al petto più o meno esitanti, oppure col palmo aperto verso il cielo, egli volge la destra verso Maria: un gesto che evoca sia l’impertinente curiosità con cui aveva voluto toccare con mano le piaghe del Cristo risorto, ma soprattutto il dono del Sacro Cingolo, che la Madonna consegnerà proprio a lui nel giorno dell’Assunzione.
La parte superiore del dipinto è occupata da paffuti angioletti che fanno ala ai raggi luminosi e alla pioggia di fiammelle, in parte emergendo ed in parte sommersi dalla luce dorata, la cui sorgente è nella colomba dello Spirito Santo, ed offuscati dal vento che soffia insieme a quella luce: una luce al contempo fisica – quasi atmosferica, direi – e tuttavia spirituale che dobbiamo considerare indizio di modernità da parte dell’artista.
Il significato dell’opera, che dobbiamo più probabilmente collocare nel primo trentennio del Settecento, si comprende meglio se si riflette su due aspetti. Il tema prescelto si prestava perfettamente a ribadire le posizioni dottrinarie ufficiali della Chiesa cattolica in materia di giansenismo e a difesa del culto mariano. Nel periodo cui l’opera dovrebbe risalire furono ben tre i pontefici – e cioè Clemente XI, Innocenzo XIII e Benedetto XIII – che si batterono con particolare dedizione contro i giansenisti. Il primo di essi, anzi, fu l’autore di una puntigliosa confutazione della loro dottrina nella famosa bolla Unigenitus Dei Filius del 1713, propalata e ribadita energicamente dai suoi successori. Ecco, così, spiegata la scelta compositiva del nostro per ora anonimo pittore: Maria, madre del figlio unigenito di Dio, è sua ipsa natura il riferimento e la mediatrice della comunità ecclesiale di cui gli Apostoli furono inizio e prefigurazione; ed è la “piena di grazia” che, in quanto tale, fu fatta strumento di quella salvezza che i giansenisti ritenevano dispensabile solo direttamente dal Cristo. La forza della coscienza religiosa e dottrinaria di piccole comunità sperdute come quella del nostro territorio, nel Settecento, continuava dunque a basarsi su una capillare diffusione della Parola attraverso immagini che ne rendessero profonda e consapevole la conoscenza.