I tesori delle frazioni: l’Annunciazione di Barbiani ad Acquaviva

I tesori delle frazioni di Montepulciano: l’Annunciazione di Bartolomeo Barbiani in S. Vittorino ad Acquaviva

La pieve di S. Vittorino in Acquaviva è una delle più antiche del territorio, essendo documentata fin dall’802, due anni dopo la fondazione del Sacro Romano Impero da parte di Carlo Magno. La chiesa attuale è un esempio di sobria architettura neoclassica degli anni ’20 del XIX secolo, non ancora contaminata dalle forme artefatte del Purismo di lì a poco dilagato in terra senese. Dell’edificio più antico e delle sue evoluzioni resta qualcosa solo sul fianco sinistro dell’edificio, riconoscibile all’esterno per la diversità dei materiali e della tecnica muraria; all’interno per la presenza di una sorta di navatella nella quale sono riemersi interessanti affreschi di scuola umbra del primo Cinquecento, dei quali ci occuperemo in un’altra occasione.

Questa prima scheda di scoperta dei tesori delle frazioni di Montepulciano è infatti dedicata a una bellissima tela seicentesca esposta sulla parete sinistra del presbiterio e recentemente restaurata. Si tratta dell’Annunciazione fondatamente attribuita a Bartolomeo Barbiani (Montepulciano 1597-1645), un notevole pittore barocco. Dopo aver firmato a soli 17 anni di età gli affreschi nel portico della chiesa di S. Maria Nuova a Firenze, il Barbiani si trasferì a Roma e fu allievo di Antonio Circignani, detto il Pomarancio come suo padre Niccolò perché entrambi originari di Pomarance, in territorio pisano. Può forse bastare questo perfezionamento presso una delle più vivaci botteghe della Città Eterna a spiegare nella sua pittura la convivenza di elementi tardomanieristici, come i colori cangianti di Federico Barocci e il paesaggio classicista del Domenichino, con qualche forte eco del nord come il naturalismo anticlassico del Caravaggio e soprattutto della pattuglia italo-francese-olandese dei caravaggeschi seguaci della Manfrediana methodus di Bartolomeo Manfredi – guarda caso anch’egli allievo di Antonio Circignani.

L’attività dell’artista poliziano fu intensissima a Todi e in numerosi centri dell’Umbria (anche nella non distante Panicale), con sporadiche presenze in terra aretina e senese, ma egli fu anche “propheta in patria”, come attestano i bellissimi e purtroppo trascurati affreschi con la Gloria di S. Agostino e dell’Ordine agostiniano nell’abside antica della chiesa intitolata al santo di Ippona nella contrada di Gracciano e quelli con La Guerra di Siena e le gesta di Vincenzo Nobili nel salone delle feste nel palazzo Nobili Tarugi in piazza Grande. L’Annunciazione di Acquaviva proviene dalla seicentesca chiesa di S. Ilario ad Argiano.

B. Barbiani - Annunciazione di Acquaviva
L’Annunciazione di Bartolomeo Barbiani

Lo schema compositivo del dipinto è ancora cinquecentesco: l’arcangelo Gabriele irrompe dall’angolo in alto a sinistra sullo sfondo di un cielo nuvoloso da cui piove una luce dorata che scolpisce lo spazio e i corpi; quasi galleggia, tanto lieve è il suo passo, su una bambagiosa nuvola di cherubini; il suo corpo, con ali carnose come quelle di un cigno, si libra plasticamente. La mano destra levata, con pollice, indice e medio aperti, indica che il nunzio divino sta parlando e dunque proferendo il saluto alla Vergine, mentre con la sinistra porge il giglio, simbolo della purezza di Maria.

La Madonna è in una stanza schermata da pesanti tendaggi, scatola spaziale aperta come la quinta di un teatro che è il teatro del mondo, cioè il luogo in cui ogni giorno si rinnova il miracolo dell’amore di Dio per l’uomo, agli occhi di chi voglia riconoscerlo; ma è anche lo spazio fisico reale di Maria, alle cui spalle s’intravvede in penombra il talamo intatto, simbolo della sua verginità, del concepimento miracoloso e del suo essere promessa a Giuseppe. Da secoli, ormai, nessun pittore la raffigura più intenta a filare porpora e scarlatto, come narrano gli apocrifi Protovangelo di Giacomo e Vangelo dello pseudo-Matteo, ma inginocchiata a leggere un libro sacro, forse di preghiere, a giudicare dall’alternarsi di caratteri in nero e in rosso (curiosamente imitanti il maiuscolo greco, ma senza alcun senso compiuto). Un alito di vento, certo provocato dall’impetuoso arrivo dell’arcangelo, ne solleva lievemente le pagine aperte sull’inginocchiatoio. Maria ha il viso d’un ovale francese (è un altro elemento che rivela le consuetudini del pittore col cosmopolita ambiente romano del suo tempo), acceso da un rossore che conferisce alla sua bellezza una nota popolare e non plebea, pudica come si conviene al momento, ma dal tratto nobile e misurato nel gesto: accompagnata da un sorriso verecondo, accosta la mano destra al seno, mentre abbassa la sinistra come per aprirsi ed accettare l’annuncio, indicando quella terra – humus – che perciò la rende humilis, umile ancella del Signore.

È evidente l’ossequio dell’artista all’iconografia consolidata ed ai testi sacri, ma senza scivolare nell’enfasi barocca, come dimostra il lieve impaccio di quell’arcangelo dall’abito purtuttavia cangiante, dalle pieghe consistenti come una toga romana e dall’aspetto di un Eros di età ellenistica nel dialogare con una bellezza tanto naturale. Un dettaglio posto in primo piano suona come un omaggio del Barbiani al caravaggismo e alla tradizione della natura morta: una cesta di vimini di cui si distinguono una ad una le fibre accoglie un ampio drappo di candido lino; da essa emerge un utensile in ferro che si può interpretare come il manico di un paio di tenaglie o le punte di un paio di forbici sartoriali.

Se è attraente, come lo è, la cura minuziosa nella resa naturalistica della materia d’ogni oggetto, che ripropone l’essenza del Barocco, infinitamente più potente è però il senso di questo dettaglio, posto dal pittore in primo piano, con abile dissimulazione: Maria, promessa sposa di Giuseppe, da prima dell’annuncio prepara la veste della creatura che desidera comunque generare, come natura delle cose e senso della vita impongono; il cesto di vimini è premonizione e allusione all’umile culla in cui nascerà il Salvatore; e quelle tenaglie, se come tali sono da interpretare, sono l’attributo consueto del pietoso Nicodemo, colui che estrasse i chiodi dai polsi e dai piedi del Cristo crocifisso, e dunque simbolo della Passione; se si trattasse invece di forbici, più banalmente coerenti con la lunga pezza di stoffa preparata dalla Vergine, poco cambierebbe il senso di quel lino. Esso, infatti, mentre evoca la prima, povera veste del Bambino, è anche premonizione del sudario che avvolgerà il corpo del Messia dopo la Passione.

Furio Durando
Milanese di nascita nel favoloso 1960 e poliziano d'elezione dal 1997, vive nella ridente Acquaviva, quintessenza della chianinità e terra di bizzarri e lunatici quanto lui, e dunque sua nicchia ideale. Insegna storia dell'arte nei licei classico e linguistico di Montepulciano. Ha scritto decine di articoli scientifici di archeologia e storia dell'arte per riviste italiane e straniere e ha pubblicato per le più prestigiose case editrici del mondo una decina di volumi di archeologia, alcuni dei quali tradotti in diverse lingue (da 4 a 14, secondo i casi).

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