La “Cacciata dal Paradiso Terrestre” nel Museo Civico

Tra i musei d’arte dei centri minori della Toscana meridionale, il Museo Civico–Pinacoteca “F. Crociani” di Montepulciano rappresenta un’eccezione: il suo nucleo principale è costituito dalla vasta collezione di dipinti dal XIV al XIX secolo allestita Francesco Crociani e da lui donata alla città nel 1861, ma a ciò si è aggiunto nel tempo un importante complesso di dipinti, sculture, reperti archeologici e oggetti di culto che ne fanno il più importante museo della Toscana meridionale al di fuori dei capoluoghi di provincia.

Il percorso politematico ambientato in palazzo Neri-Orselli spazia dall’archeologia etrusca e romana del territorio alla storia medievale e rinascimentale della città, ma la maggior attrattiva è la sequenza cronologica di dipinti, sculture lignee, terrecotte robbiane, codici miniati organizzati con ed intorno al nucleo Crociani. In esso spiccano i capolavori del Signorelli, del Sodoma, del Beccafumi, del Caravaggio, del Sustermans, di Agostino Carracci, del Gabbiani, del Bloemaert, del Fabre, dunque presenze eccellenti e non solo toscane, tali da giustificare ancor più un obiettivo che ponga questa istituzione nel cuore e nella mente degli abitanti di questo territorio, perché non solo di turismo – soprattutto sempre più di passo come quello che ci caratterizza – vivono e prosperano i musei, ma di un radicamento nella comunità, di un essere luogo di ritrovo, di incontro, di ordinaria e piacevole fruizione per chi qui vive l’intero anno e per chi nella nostra città trascorre vacanze brevi o lunghe. E questo può avvenire soltanto facendo conoscere il nostro museo a chi a Montepulciano e nel territorio circostante vive, opera e spesso di turismo si sostenta.

Il nostro museo, intanto, si è arricchito di un’altra opera che ci porta oltre i confini toscani, grazie alla generosità di Gianluigi Matturri, grande collezionista e soprattutto cultore d’arte di rara competenza. A lui si deve, infatti, se dallo scorso giugno il dono di una grande tela a olio del Cinquecento veneziano, restituita per l’occasione alla sua originale luminosità cromatica e atmosferica dal minuzioso restauro di Mary Lippi.

Della genesi e delle vicende della Cacciata dal Paradiso Terrestre ora a Montepulciano non si conosce alcunché, tranne che ha fatto parte di due collezioni private milanesi nel XX secolo. La sua origine è indiscutibile: entro la cornice in legno dorato a rilievo con motivi vegetali (probabilmente ottocentesca), si riconosce la trama a spina di pesce della tela, di caratteristica produzione veneta.

L’iconografia del tema, fra i più comuni della storia dell’arte anche nel Cinquecento, è inconsueta. L’episodio della cacciata di Adamo ed Eva dall’Eden, che il libro della Genesi (3, 23-24) condensa in due soli versetti, è infatti trasformato da storia sacra in fabula picta dal sapore laico e quasi pagano, in accordo sia con lo spirito dell’ultimo Rinascimento prima della Controriforma, sia con la peculiarità dell’ambiente veneziano in cui l’opera fu dipinta, sicuramente non molto oltre l’inizio, ma certamente prima della fine del Concilio tridentino.

Su una quinta di boschi e alberi che cingono un declivio di prati dai quali affiora appena qualche roccia si muovono i tre protagonisti della scena, il limite inferiore della quale è delineato da un ruscelletto – allusione ai fiumi paradisiaci e confine fisico e simbolico fra la dimensione dell’immortalità e della felicità eterne del giardino di Eden e quella contrassegnata dalla condanna alla mortalità e alla quotidiana fatica dopo il tradimento del patto con Dio. Un cielo che alterna squarci d’azzurro sereno a nubi torreggianti e minacciose che evocano l’ira divina sovrasta il paesaggio.

A sinistra è l’angelo che la tradizione iconografica dal Medioevo in poi ha voluto vedere, anziché custode dell’Eden dopo la cacciata dei Progenitori, attore del loro allontanamento, quasi sempre ponendo la spada fiammeggiante (di cui al versetto 24 del terzo capitolo della Genesi) tra le mani della creatura celeste. Egli irrompe con impeto quasi danzante, impugna una spada dai riflessi argentei e di foggia cinquecentesca: la perentorietà del gesto col quale scaccia Adamo ed Eva e l’impassibilità del volto hanno qualcosa di teatrale e favolistico insieme.

dettaglio 1

Al centro è Eva, che mentre fugge verso destra si volge indietro con grazia inquieta, schermando il corpo nudo; a destra un Adamo possente e barbuto corre nella medesima direzione e ugualmente si volta freddamente indietro, o forse appena curioso e inquieto nella fretta di mettere una distanza tra sé e l’angelo. Ai fianchi indossa la cintura-perizoma di foglie di fico di cui al versetto 7 del medesimo capitolo 3 della Genesi.

dettaglio 2

La composizione è paratattica, il dinamismo è accentuato da una linea disegnativa energica e fresca, in parte sovrastata dal colore e dall’urgenza dell’artista di ricavarne forme palpitanti di vita, tanto che affiorano qua e là ripensamenti in corso d’opera – p.es. nella mano sinistra dell’angelo, sulla spalla destra di Adamo, forse anche nella mano sinistra di Eva che trattiene i capelli mentre si volge turbata. Il colore è luminoso e – dove meglio conservato – pastoso e costruttivo. Un naturalismo tutto nordico caratterizza lo scenario, con una gamma di bruni, ocra e verdi caldi che si fanno macchie nella lontananza, mentre da vicino delineano le fronde quasi foglia a foglia; fitti e mossi tocchi di biacca rendono le onde del rivo paradisiaco quasi sonore, sul limite inferiore del dipinto. Per quanto l’impoverimento dello strato pittorico consente di osservare, la consistenza dell’epidermide – delicata quella di Eva, più bruna e villosa quella di Adamo – e la qualità della veste dell’angelo sono rese con altrettanto naturalismo, questa volta squisitamente veneto per il tono cangiante della stoffa, per la modulazione cromatica che – non appena attinge al reale – subito si liquefà, cercando il fenomenico ai limiti dell’impressione.

Davvero problematico è individuare con certezza l’autore di questa tela, in mancanza di una firma o di una sigla e nella totale assenza di fonti e documenti d’epoca in proposito. I caratteri stilistici, però, inducono a circoscrivere le ipotesi di attribuzione a un importante protagonista del Cinquecento veneziano o alla sua cerchia di allievi e collaboratori. Parliamo di Andrea Meldolla, pittore e incisore che alcuni studiosi considerano tra i punti di riferimento della formazione di Jacopo Robusti detto il Tintoretto.

Nato nel 1510 o poco dopo a Zara, dove il padre era conestabile della Serenissima, rivela origini romagnole e forse anche ebree nel cognome, variante di Meldola, sull’appennino forlivese. Approdato a Venezia verso la metà degli anni Trenta, fu soprannominato lo Schiavone: s-ciavón, versione dialettale di slavone e frutto dell’equazione geografica Slavonia (attuale Croazia orientale) = Balcani settentrionali, a quei tempi in laguna indicava coloro che venivano dalle terre slave poste sotto la Repubblica di S. Marco; e ciò dovette bastare, negli assai più recenti tempi dei nazionalismi panslavi, a slavizzare il nome di questo pittore veneziano-dalmata e di italianissime origini in Andrija Medulić, ma senza alcun fondamento storico.

Nella sua ancora controversa formazione la critica ha riconosciuto una varietà d’influenze, dal Parmigianino ad Ámico Aspertini, dal Giorgione al Morto da Feltre e perfino dal senese Beccafumi; ma fu l’ambiente veneziano a fargli assorbire elementi dello stile di Tiziano, dell’ormai deceduto Pordenone, di Paris Bordon, oltre che a interessarsi palesemente al raffaellismo portato in laguna da Francesco Salviati.

Giorgio Vasari lo definì buon pittore e lo ricorda attivo soprattutto per committenti privati, solo a tratti però originale, ma sulla sua tecnica pittorica offre un dato interessante: fatta di macchie overo bozze, sembrerebbe essere stata caratterizzata da un approccio in certo senso “impressionistico” al colore e alla forma. Giudizio analogo espresse Pietro Aretino, che in una lettera del 1548 indirizzata proprio al nostro artista, allude a una sua certa “fretta” operativa e a un gusto bozzettistico non del tutto apprezzato dai contemporanei; per non dire dell’accusa di empiastrar formulatagli contro nello stesso anno da Paolo Pino nel proprio Dialogo di pittura, ma oggi si ritiene che fu un’osservazione dettata dal livore di un artista che si sentiva superato dalla modernità della nuova maniera.

I confronti stilistici che inducono a pensare allo Schiavone come autore della tela poliziana non sono pochi e vertono tutti su alcune cifre caratterizzanti il suo linguaggio attraverso gli anni fino alla morte (1563).

Per esempio, nella tela con Diana e Atteone al Kunsthistorisches Museum di Vienna, del 1559, derivata da un modello tizianesco ripreso dallo Schiavone anche per una tela d’identico soggetto ora nella Royal Collection di Hampton Court, la gestualità e la delineazione delle mani di Atteone o il volto della dea, che si rannicchia pudica e offesa, riportano alla nostra opera.

dettaglio 3

Inoltre, nell’indubbia suggestione che suscita il confronto fra il volto della personificazione allegorica di Venezia in un pannello dipinto in età giovanile, ora in una collezione privata nella città lagunare di cui non è purtroppo disponibile un’immagine di qualità, e quello di Eva nel nostro dipinto, apparentemente derivati da un medesimo modello e forse da… una stessa modella (!), non si trascuri un dettaglio che è una cifra stilistica dello Schiavone, e cioè il modo d’impugnare la spada della Venezia e dell’angelo nella tela poliziana, col pollice che va sempre in opposizione, quasi appiattendosi sull’indice.

Il peculiare tocco impressionistico dell’artista veneziano-dalmata si riscontra in altre opere molto piacevoli come un Paesaggio con quattro figure femminili, che il Richardson data al 1539-1540 e che mostra un’opposizione forte al raffaellismo fiorentineggiante portato in laguna dal Salviati in quel periodo; e come il Paesaggio con ninfe conservato a Londra (Leighton House Museum). Il dinamismo energico dell’opera qui presentata ha qualcosa dell’Apollo e Dafne al Kunsthistorisches Museum di Vienna, nella quale l’impeto gestuale sconfina nel disequilibrio, con torsioni spinte, l’ingombro delle figure nel primo piano, la funzione di puro fondale fiabesco dello scenario naturale, forse ispirato alla maniera di Polidoro da Caravaggio.

Solo un cenno possiamo fare in quest’occasione ad altre opere schiavonesche che legittimano la collocazione della nostra tela fra i prodotti suoi o, più probabilmente, della sua attivissima e ancora poco studiata bottega. Fra di esse ricordiamo pezzi famosi quali l’Annunciazione e l’Adorazione dei pastori nella chiesa veneziana di S. Maria del Carmine, lo splendido Giudizio di Paride battuto a un’asta nel 2008, il cosiddetto Scipione Africano di Vienna (Kunsthistorisches Museum), il S. Giovanni Battista delle Gallerie dell’Accademia di Venezia e lo straordinario Apollo arciere di Londra (National Gallery).

Furio Durando
Milanese di nascita nel favoloso 1960 e poliziano d'elezione dal 1997, vive nella ridente Acquaviva, quintessenza della chianinità e terra di bizzarri e lunatici quanto lui, e dunque sua nicchia ideale. Insegna storia dell'arte nei licei classico e linguistico di Montepulciano. Ha scritto decine di articoli scientifici di archeologia e storia dell'arte per riviste italiane e straniere e ha pubblicato per le più prestigiose case editrici del mondo una decina di volumi di archeologia, alcuni dei quali tradotti in diverse lingue (da 4 a 14, secondo i casi).

Leave a Comment

TOP