Sulle orme di Michelozzo a Montepulciano

Un capolavoro di Michelozzo a Montepulciano: la prima pagina del Rinascimento fiorentino in Valdichiana

“… Perché poi uno arriva qui, pensa d’essere in terra di Siena, ci sono anche le macchine con la targa di Siena; e se ne va su per il corso e cerca il solito Medioevo, e invece… to’, sembra d’essere a Firenze: palazzi e chiese, intonaci giallini, persiane verdi e gelosie scostate ad ascoltare ciance ed a scrutare amori clandestini, pietra serena e un’arenaria bionda e grossa, e travertino bianco che pare d’essere ai Fori di Roma…”.

Così scrivevo, ventisette anni fa, la prima volta che venni a Montepulciano, che di senese ha proprio poco. Qui Firenze, sua potente alleata, volle esportare prima che altrove il “suo” Rinascimento; e volle, Montepulciano, essere una Firenze minore, altera ed asciutta come le donne di queste parti, sciolte nel fare e dirette nel dire. Divergenze.

Anno 1401. A Firenze, per decorare la porta nord del Battistero, si sfidano Filippo Brunelleschi, Jacopo della Quercia, Lorenzo Ghiberti e altri quattro orafi e scultori del tempo: comincia così il Rinascimento. Nello stesso anno Montepulciano accoglie nella sua pieve romanica, poi cancellata dallo scatolone inutilmente ingombrante e diaccio della cattedrale di S. Maria Assunta, partorito da Ippolito Scalza in ossequio più ai principi del Bellarmino che a quelli del Bello, il Trittico dell’Assunta, capolavoro di Taddeo di Bartolo e del Tardo Gotico senese. Mentre dunque in riva all’Arno il mondo classico torna linfa vitale, sulla ventosa acropoli poliziana l’ultimo lampo del Medioevo accende d’oro e colori smaglianti la fabula religiosa e la fede declinanti innanzi al Dio della ragione. Convergenze.

Anno 1427. A Firenze trionfa il Rinascimento di Brunelleschi, Donatello, Masaccio. E s’afferma Michelozzo: un genio che tutto ha compreso del nuovo, ma si muove con prudenza dove è il caso. Montepulciano è ambiziosa, ben governata, in piena fioritura. Il segretario apostolico di papa Martino V è un poliziano: Bartolomeo Aragazzi, però, è anche un erudito ed un collezionista e studioso di epigrafi antiche. Ed è lui che chiama Michelozzo, reduce da importanti commissioni a Firenze e Napoli, nella piccola città affacciata sulla Chiana. L’Aragazzi affida all’architetto e scultore fiorentino la realizzazione del proprio monumento funebre nella pieve dedicata all’Assunta sulla grande piazza al culmine dell’acropoli. Morirà nel 1429 e il sepolcro, concluso nel 1438, sarà il primo di stile compiutamente rinascimentale nella storia dell’arte.

Michelozzo, monumento funebre di Bartolomeo Aragazzi
Michelozzo: il monumento funebre di Bartolomeo Aragazzi

Un’attendibile ipotesi ricostruttiva dà un’idea del suo aspetto originario, dato che il monumento fu smembrato fra XVII e XVIII secolo e parzialmente alienato (due magnifici Angeli adoranti si trovano al Victoria and Albert Museum di Londra), ma i pezzi ricollocati in punti diversi del duomo poliziano sono anche singolarmente puro godimento estetico. La statua giacente dell’Aragazzi, oggi addossata alla controfacciata, è un capolavoro. Il volto è il ritratto fedele, certo derivato dalla maschera in cera del defunto, ed è soprattutto uno dei primi, se non addirittura il primo ritratto fisionomico individualizzato della storia dell’arte dopo undici secoli di astrazioni e clichés. Rughe profonde, segni scolpiti dal tempo e da una severa condotta solcano fronte, zigomi e gote, e i solchi sono reliquie serene, non più seni d’ombra perturbati dalla vita: un viso e la sua storia vi si condensano, sono la forma residua di un esistere cessato, le virtù, la memoria e la coscienza eternate nel marmo. Pieghe ordinate cadenzano l’abito, sotto il quale si percepiscono il volume delle membra, il rilievo delle rotule, perfino la trama di tendini, vene e falangi sotto le pantofole di stoffa leggerissima, resi con sconvolgente esattezza anatomica. E basta scorrere con lo sguardo le splendide mani di Bartolomeo Aragazzi per notare l’altimetria leonardesca ante litteram di ossa, tessuti ed epidermide, un miracolo di perfezione. Unica concessione alla tradizione tardogotica, il cuscino posto sotto al capo del defunto, che imita uno spesso velluto damascato o un cuoio fiorentino impresso a fuoco.

Sul simulacro incorruttibile della salma, simbolo della resurrezione promessa, vegliavano gli Angeli adoranti oggi a Londra e il Cristo benedicente attualmente sul pilone di destra del presbiterio. L’omaggio di Michelozzo allo stile di Donatello è evidente: citazioni del S. Giovanni Evangelista da quest’ultimo scolpito per la facciata del duomo fiorentino sono nella struttura e nella postura del corpo e nei grassi panneggi della veste. La vasta cultura antiquaria di Michelozzo emerge prepotentemente, però, nel volto del Redentore, il cui potere taumaturgico e salvifico non è per caso evocato dalla ripresa delle immagini sacre del dio pagano Asclepio e da ritratti di filosofi e di medici di età ellenistica, da Ippocrate ad Ermarco e Metrodoro. Un Cristo sintesi della fede cristiana e della saggezza pagana si levava dunque alla sommità del monumento, icona della nuova arte.

In basso era invece la Base con fregio a putti e festoni oggi sull’altare maggiore, citazione quasi archeologica (ed autentico omaggio alla passione terrena dell’erudito Aragazzi) per i suoi decori ripresi da analoghi sarcofagi medioimperiali romani, ma elaborati attingendo – più che allo stiacciato donatelliano per il bassissimo rilievo o alla linea stilistica robbiana per i putti danzanti – a suggestioni impressionistiche d’età flavia (si vedano i nastri svolazzanti che quasi annegano nel piano di fondo) ed al classicismo adrianeo e antonino (le cornici che orlano il campo figurato).

MichelozzoLa fronte del sarcofago era ornata dalle due grandi formelle a rilievo attualmente visibili sui primi due pilastri a sinistra e a destra della navata centrale: la prima mostra Bartolomeo Aragazzi benedetto dalla Vergine, la seconda Bartolomeo Aragazzi accolto in Paradiso dagli antenati. L’interesse di Michelozzo per lo stile di Luca della Robbia è qui evidente nell’adozione di una cadenza ritmica verticale e di uno schema centralizzato, appena disturbato da fremiti di putti gioiosamente danzanti o dialoghi isolati di figure. Una serena compostezza pervade queste epifanie celesti che attestano la certezza del premio destinato ai giusti. Presidiavano la tomba gli Angeli ora posti ai lati dell’altare maggiore. A sinistra è quello con un candelabro, a destra quello con una candela elicoidale: una grazia androgina si libera nella posa sinuosa, quasi esitante, delle due figure, chiaramente ispirate a quella pleiade di statue e di rilievi neoattici rispuntati dagli strati della romanità intaccati dalle fondamenta dei cantieri medievali e tornati a nutrire l’immaginario degli artisti.

A molti di coloro che avevano ammirato a Montepulciano, solo trent’anni prima, il Trittico dell’Assunta di Taddeo di Bartolo e la sua ormai esausta modernità s’offriva così il miracolo dell’antichità rinnovata. Lontano da Firenze, ma soprattutto lontanissimo da Siena.

Furio Durando
Milanese di nascita nel favoloso 1960 e poliziano d'elezione dal 1997, vive nella ridente Acquaviva, quintessenza della chianinità e terra di bizzarri e lunatici quanto lui, e dunque sua nicchia ideale. Insegna storia dell'arte nei licei classico e linguistico di Montepulciano. Ha scritto decine di articoli scientifici di archeologia e storia dell'arte per riviste italiane e straniere e ha pubblicato per le più prestigiose case editrici del mondo una decina di volumi di archeologia, alcuni dei quali tradotti in diverse lingue (da 4 a 14, secondo i casi).

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