La Sacra Famiglia con San Giovannino del Sodoma

Per gioco e per passione: la Sacra Famiglia con San Giovannino del Sodoma a Montepulciano

La luce è filtrata da una caligine lieve quel tanto che basta ad attenuare l’azzurro pervinca d’un cielo autunnale su un paesaggio di colli, di borghi, di monti lontani, di fiumi sinuosi, in un astratto nord che abbiamo in mente. In quello sfondo è condensato l’archetipo del mondo, l’idea di una natura possente e sublime, grazia concessa da Dio e disturbata dall’errore umano, ignara, o in silenziosa e millenaria attesa della possibile salvezza.

sacra famiglia sodoma

Separa quel piano lontano dalle figure accanto a noi una quinta di fronde, filare d’alberi imponenti, esile diagonale interrotta. È il piano di un’immagine istantanea, rubata al tempo ed opportunamente, e non a caso, graziosa perché divina, effimera perché umana. Qui è ciò che Lisippo chiamava kairòs, il «momento opportuno», l’istante, cioè, nel quale l’essenza profonda e vera delle cose si rivela in un lampo, libera da ogni inganno fenomenico, nuda, prima che il velo oscuro si richiuda. Il momento opportuno: molto più che un attimo fuggente. «Il» determinativo contro «un» fatalmente indeterminato e solo arbitrariamente determinabile.

La Vergine è bella, di una bellezza senza tempo, ma l’ombra interiore, lo smarrimento proprio di chi sa ed è certo, la rassegnata obbedienza di chi crede sono in quel suo sguardo abbassato, oltre il suolo che tuttavia lo arresta; oltre le cose presenti. Andar oltre il presente non significa essere assenti. La Vergine pensa, allora, o forse semplicemente ha ben chiaro quel che le Scritture dicono, e umanamente se ne duole ed ubbidisce, ma intanto c’è da fare.

Per esempio, c’è da trattenere quel bambino vivace che s’agita in grembo, che stringe un lembo del manto della madre, si protende, afferra con la curiosità della sua età e, incredibilmente, con l’addolorata dolcezza dello sguardo che avrà, adulto e agonizzante, la rustica croce di canne palustri in mano al cuginetto Giovanni, il precursore, il battezzatore, l’ultimo profeta. Giovanni guarda colui che sarà crocifisso, e questi guarda la croce. Il profeta-uomo rivela la verità di Dio al Dio-uomo. Nel cerchio dei rimandi, la perfezione, il compimento, la salvezza attraverso il dolore.

Tanta tensione si stempera un istante. La destra della madre sostiene il torso scattante del bambino, il suo pollice sinistro affonda nella burrosa pinguedine di una gambetta del figlio. Bizzarrie di un pittore che dispone a piacere del proprio acuto senso delle cose naturali e del proprio gusto per lo scherzo. Sulla destra, alle spalle, nella penombra dell’evento e della storia (è il destino dei padri, talvolta), Giuseppe, spettinato e segnato dal tempo, contempla la scena e la rivelazione.

Gli storici dell’arte annotano con puntiglio le memorie «nordiche» e lombarde nel paesaggio sullo sfondo e nei dettagli, la conoscenza di Leonardo nell’orizzonte che svanisce, nella trovata della quinta arborea dietro il viso della Vergine, nei luminosi filamenti d’oro delle chiome, nei volti sfumati, negli sguardi e nei loro sottintesi, nella forza plastica delle carni; e non trascureranno che l’ovale e i colori delle vesti di Maria dipendono dal Perugino e dalle sue scuole fiorentina e umbra. Certo, di questo ed altro ancora fu impastata la pittura di Giovanni Antonio Bazzi, detto il Sodoma, genialoide eccentrico al punto di manifestare la propria omosessualità (donde il soprannome): vissuto fra il 1477 e il 1549, vercellese di nascita, lombardo-piemontese di formazione, inquieto dipintore fra Toscana e Roma, fu, infine, placido senese d’adozione, nell’ultima stagione di libertà dell’antica repubblica.

Era più o meno il 1535 quando, per un ignoto committente, l’artista dipinse questa bella tavola, ora nel Museo Civico-Pinacoteca “F. Crociani” di Montepulciano. Vercelli era lontana ormai, un sogno dimenticato nel mosaico delle risaie in cui si specchiavano pigri gli aguzzi campanili e le alte torri medievali; e lontani erano i meravigliosi venticinque anni d’età, e l’avventura a Sant’Anna in Camprena e nel deserto d’Accona, a Monte Oliveto Maggiore, le liti coi monaci e gli scherzi pittorici nascosti nella didattica austera degli affreschi dentro a chiostri e refettori. C’era stata l’avventura romana, c’erano stati i fasti di un successo breve, ed il ritorno a Siena, e un posto al sole in quel rinascimento giunto tardi, e la passione per le corse dei cavalli, e tanta vita.

Una sottile nostalgia s’affacciò in un istante rintracciabile soltanto nello spazio del dipinto. Osservate il profilo dell’alta montagna innevata fra le teste di Maria e Giuseppe: è il Monte Rosa, così come lo si vede ancor oggi dalla grande pianura attorno a Vercelli, nei giorni in cui la tramontana o il favonio discendono fra risaie e cascine e rendono l’aria cristallina. Forse desiderò rivedere le proprie montagne, e tuttavia ricco di tanta bellezza poté veleggiare verso l’ultima isola, accompagnato da Madonne silenziose.monte rosa

Furio Durando
Milanese di nascita nel favoloso 1960 e poliziano d'elezione dal 1997, vive nella ridente Acquaviva, quintessenza della chianinità e terra di bizzarri e lunatici quanto lui, e dunque sua nicchia ideale. Insegna storia dell'arte nei licei classico e linguistico di Montepulciano. Ha scritto decine di articoli scientifici di archeologia e storia dell'arte per riviste italiane e straniere e ha pubblicato per le più prestigiose case editrici del mondo una decina di volumi di archeologia, alcuni dei quali tradotti in diverse lingue (da 4 a 14, secondo i casi).

Leave a Comment

TOP